Silvia ha 61 anni e insegna lingua italiana all’università agli studenti stranieri da trentacinque anni.
“Mi sono innamorata di questo lavoro e non ho voglia di andare in pensione”, dice con un sorriso che tradisce tutta la passione per quello che fa. Ma la sua storia inizia molto prima, intrecciata tra le sponde del Lago Maggiore e i ricordi di una bambina che ha imparato presto il valore della presenza.
Radici che affondano nel Lago
Lesa. Un nome che per Silvia racchiude un’intera esistenza.
“All’inizio odiavo Lesa” confida “perché mi aveva fatto abbandonare Macugnaga e il mio gruppo di amici quando avevo quindici anni.”
Ma come spesso accade, ciò che inizialmente respingiamo può diventare il punto più saldo del nostro cuore. Quella casa sul lago è diventata il rifugio di tre generazioni: i nonni, che avevano una casa sull’altra parte della sponda, il suo papà e lei, che ha ritrovato in quel luogo il profumo dei ricordi più cari.
Sono proprio quei ricordi – le gite in barca con il papà e il fratello, la barchetta di legno lasciata al porticciolo, gli insegnamenti paterni sulla gratitudine – che hanno plasmato la sua visione del mondo.
“Mio papà ci ricordava sempre di essere grati di poter fare le vacanze insieme, di non dare mai niente per scontato.”
Quando l’ospedale diventa casa
Ma c’è un’altra memoria che ha segnato profondamente Silvia: quella di una bambina di quattordici anni costretta a lunghi ricoveri ospedalieri per interventi ortopedici alle anche. “Sono stata in ospedale per mesi, ho perso tanti giorni di scuola e di attività da adolescente” ricorda. “Mia mamma era sempre con me – ero fortunata perché potevamo permetterci di pagare una stanza privata in cui lei poteva rimanere sempre -, ma quando si allontanava anche solo per un caffè, io ero terrorizzata. Era una grande fortuna averla lì.”
Quell’esperienza, apparentemente lontana nel tempo, ha lasciato un segno indelebile in Silvia: la consapevolezza di quanto sia prezioso avere qualcuno accanto nei momenti di fragilità, di quanto una presenza familiare possa fare la differenza tra la paura e la speranza.
Il cerchio che si chiude
A gennaio, passeggiando per Lesa, Silvia nota uno striscione della Fondazione Bianca Garavaglia all’esterno dei cancelli dell’Asilo “Genietto” con scritto “qui sorgerà la Casa del Fiore”.
L’idea che qualcuno stesse iniziando a recuperare quel luogo che ricordava animato dalle voci dei bambini dell’asilo quando era piccola le scalda il cuore e poi quel nome – Fondazione Bianca Garavaglia…. le suona familiare.
Tornata a casa, Silvia cerca quel nome tra le sue cose e lo trova in alcune email di auguri di Natale del suo consulente finanziario.
Una serie di coincidenze, o forse no.
Silvia cerca informazioni, chiama il suo consulente per avere qualche notizia in più anche da lui e, dopo poco, decide di organizzare un incontro di persona con i responsabili della Fondazione.
Scopre del progetto della Casa del Fiore, quella struttura che sorgerà proprio sulla spiaggia della Madonna di Campagna, dove va ancora oggi a passeggiare, vicino alla chiesina che conosce bene e che le ricorda momenti preziosi con la sua famiglia.
“Praticamente racchiudeva tutti i miei desideri” spiega Silvia.
Una casa per accogliere le famiglie lontane da casa durante le cure dei propri cari. Una casa vicina alla stazione – “perché suo papà le ha sempre detto ‘è importante avere un posto dove andare’”, riflette con la saggezza di chi sa che niente è garantito per sempre.

Il dono della condivisione
La decisione di donare nasce da una consapevolezza matura. “Non ho figli” dice Silvia “e penso al dopo. La mia famiglia mi ha lasciato qualcosa e ho sempre pensato che avrei voluto dare e lasciare qualcosa mentre sono in vita.”
Il padiglione Genietto, che nella mente di Silvia bambina rappresentava “il posto per i bambini molto bravi”, ora rinascerà con un nuovo scopo.
E quella spiaggia che Silvia frequenta spesso diventerà un luogo di accoglienza e speranza.
L’eredità invisibile
“Ho una vita semplice, una vita che mi rende felice. Se abbiamo la fortuna di avere qualcosa, va condiviso. È normale.”
Per lei, normale significa trasformare i suoi risparmi e quell’eredità familiare che profuma ancora della casa dei nonni, in qualcosa che continui a prendersi cura degli altri.
“Lasciare qualcosa in questo mondo mi dà molta gioia”
La Casa del Fiore rappresenta per Silvia il filo invisibile che unisce la bambina spaventata in ospedale, la ragazza che ha imparato ad amare Lesa, l’insegnante che ancora oggi trasmette passione e la donna che guarda al futuro pensando a chi verrà dopo di lei.
In fondo, forse è questo il vero senso della donazione: non solo dare quello che si ha, ma trasformare la propria storia in un ponte verso le storie degli altri, perché nessuno debba mai sentirsi davvero solo.